Capitolo 6 – L’abbandono

523 Parole
Il valzer era cessato, ma un’energia febbrile continuava a scorrere tra Simone e Tommaso, come un invisibile filo teso sul palcoscenico che li teneva ostinatamente legati. Attorno, il teatro era sempre più irreale: ombre che si allungavano come spettatori antichi, velluti che sembravano respirare, i riflessi dorati sui marmi e sugli stucchi che mutavano con il loro movimento minimo, moltiplicando presenze che non c’erano. Tommaso sciolse delicatamente la presa, ma restò così vicino che Simone poteva percepire ogni singolo battito del suo cuore, ogni particella d’aria che separava la loro pelle. Negli occhi profondi dell’apparizione brillava ora una luce più dolce e crudele insieme, qualcosa che andava al di là della sfida: una promessa, un abisso e un invito. “Se vuoi davvero che questo palco sia tuo, devi lasciare andare ogni paura, ogni controllo,” sussurrò Tommaso, la voce vibrante come una nota tesa. “La danza non vuole barriera, chiede abbandono, chiede di consumare tutto ciò che sei e che hai mai osato desiderare.” Il tremore di Simone si fece nuovo, diverso: non era più solo timore, ma fame, desiderio di sconfinare. Fu Tommaso a guidarlo: si mosse in cerchi sempre più stretti, fino a che i loro corpi tornarono a sfiorarsi. Le mani del ballerino morto si posarono sulle spalle di Simone, leggere eppure ineluttabili, e ogni tocco era un’onda calda che sgretolava le sue resistenze. Con pochi accenni, Tommaso lo spinse a chiudere gli occhi e a lasciarsi condurre non più dai passi tradizionali, ma da ciò che nasceva spontaneo dal petto, dai polmoni, dal ventre. I movimenti divennero meno codificati, meno canonici: Simone sentiva crescere in lui una forza nuova, una verità che lo spingeva oltre la tecnica, oltre il ricordo di tutti gli insegnamenti. Bastava seguire il battito, la linea pura di un desiderio che si espandeva in ciascuna articolazione, nelle curve della schiena, nelle mani aperte che ora cercavano Tommaso di loro volontà. Ogni blocco interiore – il timore del giudizio, la paura di fallire, la vergogna dei sentimenti – si frantumava sotto la pressione silenziosa di quella presenza impossibile. La danza mutava in qualcos’altro: ogni gesto era insieme confessione, richiesta, preghiera per divenire altro da sé. Tommaso, senza parole, accarezzò il viso di Simone, lo sfiorò sulle guance, tra i capelli sudati, sulle labbra che non sapevano ancora se tremare o sorridere. “Non trattenerti. Lascia che ardano anche le tue ferite,” mormorò. “L’arte vera nasce quando smetti di difenderti.” Spinto da quella voce e da quell’esempio, Simone si gettò infine, senza freni, nel cuore della notte: i muscoli finalmente sciolti, le braccia spalancate, il corpo come strumento puro, sincero, spalancato all’impossibile. Più nulla aveva importanza se non il ritmo insensato di quel trasporto totale – abbandono che travolge, che libera, che ferisce e che cura. Alla fine, devastato e finalmente vero, Simone sentì di essere nel luogo più autentico della sua vita: un palco vuoto e sacro, dove arte e desiderio si confondevano e nessuna ombra avrebbe più potuto spaventarlo. Il primo passo verso la rinascita era compiuto – e la notte, sotto quel segno, era pronta a trasformarsi ancora.
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