Il fantasma di Cliffe RoyalE per il momento vi basti questo circa Harrison il Campione! Vorrei ora dirvi qualcosa di più intorno al Giovane Jim, non soltanto perché fu il compagno della mia infanzia, ma perché vi accorgerete a mano a mano che proseguirete nella lettura di questo libro che qui si tratta più della sua storia che della mia, e che vi fu un tempo in cui il suo nome e la sua fama correvano sulle labbra di tutta Europa. Verrete dunque con me mentre io vi parlerò e vedrete come fosse il suo carattere allora, soprattutto quando vi narrerò di un’avventura stranissima che difficilmente sia lui che io dimenticheremo.
Faceva un effetto curioso vedere Jim insieme con suo zio e sua zia, poiché sembrava appartenere a una razza e a una classe sociale completamente diverse dalla loro. Quante volte li osservai risalire la navata della chiesa la domenica: prima l’uomo massiccio, quadrato, poi la piccola donna dagli occhi ansiosi, crucciati, infine il magnifico ragazzo dal volto tagliato come una gemma, i riccioli neri, il passo talmente lieve ed elastico da sembrare che fosse avvinto alla terra da un legame ben più sottile e aereo di quel che vi teneva radicati invece gli altri tozzi e tardi contadini. Non aveva ancora raggiunto tutta la sua imponente statura di quasi due metri, tuttavia nessun buon giudice di uomini (e tali almeno sono tutte le donne) poteva contemplare le spalle perfette, i fianchi sottili, la testa orgogliosa che pareva poggiare sul collo come un’aquila su una roccia, senza provare la pacata gioia che ci danno tutte le cose belle della natura, quel senso cioè indefinito e tuttavia profondo di appagamento, come se in un certo senso avessimo cooperato noi pure alla loro creazione.
Siamo però avvezzi ad accostare in un uomo l’avvenenza alla mollezza. Non so tuttavia perché debbano essere così accoppiate; certo non lo furono mai in Jim. Di tutti gli uomini che ho conosciuti egli fu sempre il più forte sia di corpo che di spirito. Chi tra noi sapeva tenergli testa nel camminare, nella corsa, nel nuoto? Chi in tutta la regione, se non il Giovane Jim, si sarebbe arrampicato sino in vetta alla Rupe di Wolstonbury ridiscendendone per oltre cento metri a picco, mentre l’avvoltoio femmina lo assaliva nel vano tentativo di tenerlo lontano dal suo nido? Aveva soltanto sedici anni, e le sue ossa non erano ancora completamente formate quando combatté e sconfisse Lee lo Zingaro di Burgess Hill che si autodefiniva il “Gallo dei Downs Meridionali”. Fu dopo questa impresa che Harrison decise di addestrarlo nell’arte del pugilato.
«Io avrei preferito che tu lasciassi stare i pugni, Jim», gli disse, «e la stessa cosa avrebbe desiderato tua zia; ma dal momento che vuoi a tutti i costi fare a cazzotti non sarà colpa mia se non saprai difenderti come si deve».
E non passò molto tempo che la sua promessa si avverò.
Ho già detto che Jim non provava alcun entusiasmo per i libri: intendevo però alludere ai libri di scuola, ché se si trattava di leggere romanzi o qualsiasi altra cosa che parlasse di avventure prodi o galanti non era possibile distoglierlo finché non avesse finito. Quando gli capitava tra le mani un volume del genere, Friar’s Oak e la fucina diventavano come un sogno per lui e improvvisamente la sua esistenza si svolgeva sull’oceano o in scorribande attraverso i continenti in compagnia dei suoi eroi. Aveva inoltre un’abilità diabolica per trascinarmi nei suoi entusiasmi, tanto che ero stato felicissimo di rappresentare per lui, trasformatosi a un tratto in Crusoe, la parte di Venerdì, allorché aveva deciso che la boscaglia di Clayton era un’isola deserta, e che noi vi eravamo naufragati per la durata di una settimana. Ma quando mi accorsi che avremmo dovuto effettivamente dormire all’addiaccio per sette notti di seguito senza coperte, e che per cibo avremmo avuto le pecore dei Downs (capre selvatiche le chiamava lui) cucinate su un fuoco da campo che si sarebbe dovuto accendere fregando l’un contro l’altro due bastoncini, il cuore mi si fece piccolo piccolo e sin dalla prima notte me ne tornai tutto mogio da mia madre. Jim invece rimase all’aperto l’intera settimana – e fu una settimana piovosa, per giunta! – rincasando solo alla fine del settimo giorno parecchio più inselvatichito e più sudicio di quanto apparisse il suo eroe nelle illustrazioni dei libri che ne celebravano le gesta. Meno male che aveva giurato di restarsene fuori una settimana soltanto, perché se si fosse trattato di un mese sarebbe certo morto di fame e di freddo prima che il suo orgoglio gli consentisse di tornare a casa!
Il suo orgoglio! Ecco la caratteristica più profonda del temperamento di Jim. Secondo me l’orgoglio è una qualità mista, per metà virtù e per metà vizio: è una virtù perché mantiene l’uomo lontano dal sudiciume dell’esistenza; è un vizio perché gli rende difficile il risollevarsi una volta che sia caduto. Jim era farcito d’orgoglio sino al midollo delle ossa. Rammentate la ghinea che il giovane lord gli aveva gettato dall’alto del cocchio? Due giorni dopo qualcuno la raccolse nel fango della strada. Jim aveva visto dove era caduta, ma non si era degnato di additarla neppure a un mendicante. Né in casi simili si soffermava a dare una spiegazione, limitandosi a rispondere a qualsiasi rimostranza con un’increspatura delle labbra e un lampo sprezzante degli occhi neri. Anche a scuola si comportava allo stesso modo, con una tale consapevolezza della propria dignità che pure gli altri erano costretti a sentirla e a riflettervi. Poteva sì dire, come diceva, che un angolo retto è un tipo di angolo giusto, o collocare Panama in Sicilia, tuttavia il vecchio Joshua Allen ci avrebbe pensato due volte prima di alzare il bastone contro di lui, cosa che non avrebbe fatto certamente con me se fossi stato io a rispondergli a quel modo. Cosicché, per quanto Jim fosse un figlio di nessuno, e io invece il figlio di un ufficiale del re, avevo sempre l’impressione che egli mi avesse concesso un gran favore scegliendomi come amico.
Fu questo orgoglio del Giovane Jim a trascinarci in un’avventura che ancora oggi, quando ci ripenso, mi fa venire i brividi.
Accadde nell’agosto del ’99, o forse fu ai primi di settembre di quell’anno; ma ricordo benissimo che udimmo il cuculo cantare nella foresta di Patcham, e Jim disse che quella forse era l’ultima volta che ne avremmo inteso il grido di richiamo. Io frequentavo ancora la scuola, ma Jim già l’aveva lasciata, essendo ormai prossimo ai sedici anni, mentre io ne avevo appena tredici. Era un pomeriggio di sabato, e trascorrevamo perciò insieme, come facevamo spesso, la mia mezza giornata di vacanza fuori, sui Downs. Il nostro ritrovo favorito era oltre Wolstonbury, in un punto dove potevamo distenderci sulla morbida erba elastica, tra le grasse pecorelle dei Downs Meridionali, a discorrere con pastori, che si appoggiavano ai loro curiosi antiquati bastoni ricurvi di Pyecombe, foggiati al tempo in cui il Sussex produceva più ferro di tutte le altre contee inglesi riunite.
Laggiù ci trovavamo dunque anche in quel radioso pomeriggio. Se ci volgevamo sul fianco destro avevamo dinanzi a noi l’intera campagna con i Downs Settentrionali che discendevano lontano in molli ondulazioni verde oliva, punteggiate qua e là da cave di gesso candide come neve; se ci giravamo a sinistra ecco apparirci l’immensa distesa azzurra della Manica. Rammento benissimo che quel giorno la stava risalendo un convoglio: in testa veniva il timido gregge dei mercantili; sui fianchi le fregate, simili a segugi bene addestrati: chiudevano il convoglio due grosse navi da battaglia che parevano rammentare nella loro sagoma robusta le persone di due mandriani, sagaci custodi del loro armento. Mi stavo innalzando con la fantasia verso mio padre lontano sulle acque, allorché una parola di Jim mi riportò a terra come un gabbiano cui si sia spezzata un’ala.
«Roddy», mi fece, «lo sai che Cliffe Royal è stregata?»
Altro che, se lo sapevo! C’era forse qualcuno nella contrada dei Downs che non avesse mai inteso parlare del Fantasma di Cliffe Royal?
«La conosci la storia, Roddy?»
«Certo che la conosco», risposi con una punta d’orgoglio, «dal momento che il fratello di mia madre, Sir Charles Tregellis, era l’amico più intimo di Lord Avon e si trovava alla famosa partita a carte quando successe il fatto. Ho sentito la mamma parlarne con il vicario proprio la settimana scorsa, e tutto mi è sembrato così chiaro che potrei benissimo esser stato presente, quando il delitto fu commesso».
«È una strana storia», mormorò Jim soprappensiero; «ma quando ne ho chiesto spiegazione a mia zia non mi ha voluto rispondere, e in quanto a mio zio, appena gliene ho fatto cenno ha tagliato subito corto».
«Ed è giusto», ribattei; «perché da quanto ho capito Lord Avon era il suo migliore amico, perciò è più che naturale che non gli faccia piacere parlare del disonore che lo ha colpito».
«Raccontami com’è andata, Roddy».
«È una vecchia storia ormai, – sono passati quattordici anni – eppure sembra che sia successa ieri, tanto se ne parla ancora. Erano venuti in quattro da Londra a trascorrere qualche giorno nella vecchia casa di Lord Avon: suo fratello minore, il capitano Barrington, suo cugino Sir Lothian Hume, mio zio Sir Charles Tregellis era il terzo della compagnia e il quarto lo stesso Lord Avon. A questi gran signori piacciono le carte, perciò seguitarono a giocare per due giorni consecutivi e un’intera nottata. Persero tutti, Lord Avon, Sir Lothian e mio zio, mentre il capitano Barrington vinceva e stravinceva. Ma non si beccò soltanto i loro soldi, bensì anche certi documenti di suo fratello maggiore che erano per lui della massima importanza. Smisero di giocare alle ore piccole di un lunedì notte. E il martedì mattina il capitano Barrington fu trovato morto ai piedi del letto, con la gola squarciata».
«Era stato Lord Avon a ucciderlo?»
«I documenti furono rinvenuti, bruciati, nel caminetto, una striscia di pelle che Lord Avon portava al polso era stretta nella mano rattrappita del cadavere e il pugnale di Lord Avon era stato buttato accanto al corpo».
«Lo impiccarono, dunque?»
«Non riuscirono ad acciuffarlo. Lord Avon attese finché capì di essere incriminato, quindi fuggì. Nessuno lo ha più visto da allora, ma si dice che sia riparato in America».
«E il fantasma esiste davvero?»
«Ci sono molti che lo hanno visto».
«Perché la casa è ancora vuota?»
«Perché è sotto i sigilli della legge. Lord Avon non aveva figli e perciò l’unico erede rimasto è suo nipote Sir Lothian Hume, quello stesso che si trovava presente alla partita a carte. Ma non potrà toccare un centesimo finché non avrà dimostrato che Lord Avon è effettivamente morto».
Jim rimase per un poco in silenzio, giocherellando con i corti fili d’erba che gli accarezzavano le dita.
«Roddy», mi chiese infine, «verresti con me stanotte a vedere lo spettro?»
Il solo pensiero di ciò mi fece sudar freddo.
«La mamma non me lo permetterebbe mai».
«Svignatela mentre dorme. Ti aspetterò alla fucina».
«Ma Cliffe Royal è chiuso a chiave».
«Non mi sarà difficile aprire una finestra».
«Ho paura, Jim!»
«Non devi aver paura quando sei con me, Roddy. Ti prometto che nessun fantasma ti farà del male».
Così gli diedi la mia parola che sarei andato con lui, e per il resto della giornata mi aggirai per il paese con la faccia più lunga di tutto il Sussex. Per Jim era un’altra cosa. Era il suo orgoglio che lo spingeva a una simile impresa; ci andava perché non c’era nessun altro nell’intera regione che avrebbe osato farlo. Ma io non avevo il suo orgoglio; ero fatto della stessa pasta degli altri, e non mi sarebbe mai passato per la testa di trascorrere la notte nella casa stregata di Cliffe Royal, come non mi sarebbe certo passato per la testa di trascorrerla per esempio presso la forca di Jacob che sorgeva sul terreno comunale di Ditchling. Tuttavia non mi sarei mai rassegnato ad abbandonare Jim; perciò mi aggiravo per la casa, come ho detto, con una faccia così pallida e smunta che la mia cara mamma finì col convincersi che ero stato io a rubare mele acerbe e mi spedì subito a letto con una tazzina di camomilla per cena.
A quei tempi l’Inghilterra andava a dormire con le galline, perché erano pochi quelli che potevano pagarsi il lusso di accendere candele. Allorché guardai fuori dalla mia finestra, non appena scoccarono le dieci dall’orologio della piazza, la sola luce che vidi accesa nel villaggio era quella della taverna. La finestra si trovava a pochi palmi da terra, perciò mi calai senza difficoltà e qualche attimo dopo trovai Jim che mi aspettava all’angolo della cucina. Attraversammo insieme il territorio comunale di Saint John e oltrepassammo la fattoria di Ridden, incontrando sul nostro cammino soltanto qualche ufficiale a cavallo. Soffiava un vento piuttosto forte, e la luna occhieggiava a intervalli tra gli squarci delle nuvole, cosicché la nostra strada appariva a tratti chiara come l’argento, e a tratti invece era talmente buia che ci trovavamo senza accorgercene impigliati nei rovi e nei cespugli di ginestra che la fiancheggiavano. Giungemmo come Dio volle alla cancellata di legno sostenuta dagli alti pilastri di pietra che dava sul ciglio della strada, e guardando attraverso le sbarre scorgemmo il lungo viale di querce e, al fondo di questo fosco corridoio pauroso, la facciata pallida della casa brillante nella luce lunare.
Per me sarebbero stati sufficienti a spaventarmi quella semplice occhiata e il sospiro del vento notturno che si lamentava e gemeva tra i rami degli alberi; ma Jim spalancò deciso il cancello e ci avanzammo con la ghiaia che scricchiolava sotto i nostri passi. Come torreggiava alta la vecchia casa dalle infinite finestrelle, attraverso le quali ammiccava la luna, mentre una breve cintura d’acqua la circondava sui tre lati! Il portale a volta veniva a trovarsi proprio dirimpetto a noi, e da una parte una grata pareva quasi a bella posta aperta sui suoi cardini.
«Siamo fortunati, Roddy», bisbigliò Jim. «Guarda: c’è una finestra aperta».
«Non ti pare che ci siamo spinti anche troppo oltre, Jim?», osservai con i denti che mi battevano.
«Ti solleverò, così entrerai per primo».
«No, no, io per primo non ci vado».
«E allora ci andrò io». Si aggrappò al davanzale e in un attimo vi fu sopra con le ginocchia. «Adesso, Roddy, dammi la mano». Con uno strattone tirò su anche me, e un istante dopo eravamo nella casa stregata.
Che suono cavo diede il pavimento di legno al tocco dei nostri piedi! Il rimbombo fu così improvviso e terrificante che per un attimo restammo tutti e due silenziosi. Ma subito Jim scoppiò a ridere.
«Che razza di vecchia bicocca è questo posto!», esclamò. «Accenderemo un fiammifero, Roddy, così potremo vedere meglio dove siamo».
Aveva portato con sé una candela e una scatola di zolfanelli. Non appena la tenue fiamma divampò vedemmo sopra di noi un tetto di pietra a volta, e tutt’intorno larghe mensole di legno grezzo ricoperte di piatti polverosi. Era la dispensa.
«Andiamo a vedere», disse Jim vivacemente, e spingendo la porta mi fece strada nel vestibolo. Rammento ancora le alte pareti rivestite di quercia, dalle quali sporgevano numerose teste di cervo, e un unico busto bianco in un angolo che mi fece balzare il cuore in bocca. Su quel vestibolo si aprivano molte stanze, e noi ci mettemmo a vagare dall’una all’altra: le cucine, la distilleria, il tinello, la sala da pranzo, dalle quali tutte emanava un identico soffocante tanfo di polvere e di muffa.
«È qui che giocavano a carte, Jim», dissi con un filo di voce. «Proprio a questa tavola».
«Guarda, le carte sono ancora lì!», esclamò il mio compagno togliendo una copertina scura dal centro della credenza. C’era ancora veramente tutto un gran mucchio di carte da gioco – almeno quaranta mazzi, mi parvero – che erano sempre rimasti là dal giorno della tragica partita che era stata giocata prima ancora che io nascessi.
«Chissà dove conduce questa scala!», osservò Jim.
«Non salire, ti prego!», esclamai afferrandolo per un braccio. «Deve sicuramente portare alla stanza del delitto».
«Come lo sai?»
«Il vicario dice che hanno visto sul soffitto... Oh, Jim, la si vede ancora adesso!»
Il mio compagno alzò la candela illuminando così sul gesso bianco sopra le nostre teste una grossa macchia scura.
«Credo tu abbia ragione», ammise: «comunque voglio andare a dare un’occhiata ugualmente».
«No, Jim, non farlo!», implorai.
«Calmati, Roddy! Tu puoi rimanere qui se hai paura. Starò via non più di un minuto. Non serve a niente andare a caccia di fantasmi a meno che... Gran Dio, qualcuno sta scendendo le scale!»
Lo sentii anche io... Era un passo strascicato, proveniente dalla stanza superiore, che si tramutò in uno scricchiolio di passi, poi in un altro, e un altro ancora. Sembrava che la faccia di Jim si fosse trasformata in una maschera d’avorio; aveva le labbra semiaperte e gli occhi fissi sul riquadro nero dell’apertura della scala. Reggeva sempre in mano la candela, ma le sue dita tremavano e a ogni tremito lunghe ombre balzavano dalle pareti al soffitto. In quanto a me le ginocchia mi fecero cilecca e mi trovai a terra accovacciato dietro Jim, mentre un urlo mi si gelava nella gola. E intanto quel passo inumano seguitava a scendere lentamente, di gradino in gradino.
A un tratto, non osando guardare e al tempo stesso incapace di distogliere gli occhi, vidi una figura vagamente stagliata nell’angolo sul quale la scala si apriva. Seguì un silenzio in cui sentii distintamente battere il mio povero cuore, poi, quando tornai a guardare, la figura era scomparsa mentre lo scricchiolio sommesso tornava a farsi sentire sulle scale. Jim con un balzo fu dietro all’apparizione, mentre io restavo semisvenuto nella luce lunare.
Ma non rimase assente per molto. Ridiscese in capo a un minuto e, passandomi una mano sotto il braccio, mi condusse, o meglio mi trascinò fuor della casa. Aprì bocca però soltanto quando fummo di nuovo nella fresca aria notturna.
«Riesci a reggerti, Roddy?»
«Sì, ma tremo tutto».
«Anch’io», disse passandosi una mano sulla fronte. «Ti chiedo scusa, Roddy, sono stato uno stupido a trascinarti in una simile impresa. Ma io non ci credevo a queste cose. Adesso però so».
«Credi che fosse un uomo, Jim?», domandai raccogliendo tutto il mio coraggio, adesso che risentivamo i cani abbaiare dalle masserie.
«Era uno spirito, Rodney».
«Come lo sai?»
«Perché l’ho seguito e l’ho visto sparire nel muro, come un’anguilla nella sabbia. Ehi, Roddy, che cosa ti succede adesso?»
Tutti i miei terrori mi avevano riassalito a un tratto e mi ero messo a tremare come un fuscello.
«Portami via, Jim! Portami via!», urlai.
Tenevo gli occhi sbarrati fissi sul viale, e il suo sguardo seguì il mio.
In mezzo al tenebrore delle querce qualcosa stava muovendo alla nostra volta.
«Calmati, Roddy!», mi sussurrò Jim. «Perbacco, sia chi sia questa volta lo stringerò bene tra le mani».
Ci acquattammo immobili dietro i tronchi. Un suono di passi pesanti echeggiò sulla ghiaia morbida e una figura tozza baluginò su di noi nelle tenebre.
Jim diede un balzo da tigre.
«Tu almeno non sei uno spirito, perdinci!», gridò.
L’uomo lanciò un urlo di sorpresa, subito seguito da un mugolio di rabbia.
«Che il diavolo ti pigli!», ruggì; poi: «ti strozzo, se non mi lasci andare!»
Quella minaccia non avrebbe certo allentato la stretta di Jim, ma la voce dell’apparizione ebbe invece su di lui un effetto magico.
«Zio, sei tu!», esclamò.
«Che mi si secchi la vista se questo non è Jim! E quello lì chi è? Ma come, è il giovane padroncino Rodney Stone, com’è vero che io son peccatore e vivo! Che cavolo fate voi due qui a Cliffe Royal, a quest’ora di notte?»
Frattanto ci eravamo tutti spostati nel raggio di luce della luna e vedemmo Harrison in carne e ossa con un grosso fardello sotto il braccio e una tale espressione di stupore dipinta sul viso che mi avrebbe fatto sorridere se ancora non avessi avuto tanta paura in corpo.
«Siamo in esplorazione», spiegò Jim.
«Davvero? Be’, non credo che sia tu che lui siate destinati a diventare dei capitani Cook, perché non ho mai visto in vita mia due facce di rapa pelata come sono le vostre in questo momento. Diamine, Jim, ma che cosa vi ha fatto tanta paura?»
«Io non ho paura, zio. Non ho mai avuto paura; ma gli spiriti sono roba nuova per me e...».
«Gli spiriti?»
«Siamo stati a Cliffe Royal e abbiamo visto il fantasma».
Il Campione emise un fischio.
«Ah, è così, dunque?», esclamò. «Gli avete parlato, anche?»
«È scomparso prima».
Il Campione fischiò una seconda volta.
«Ne avevo inteso qualcosa anch’io», disse; «ma non è roba con la quale vi consiglio d’immischiarvi. Abbiamo già abbastanza guai con la gente di questo mondo, Jim mio, senza bisogno di andare a cercar storie con quella dell’altro. In quanto al giovane padroncino Stone, se la sua buona mamma lo vedesse bianco in faccia com’è adesso non lo lascerebbe mai più venire alla fucina. Voi andate avanti piano, io vi raggiungerò tra poco e vi riaccompagnerò a Friar’s Oak».
Non avevamo fatto mezzo miglio che il Campione ci raggiunse e io non potei fare a meno di osservare che non aveva più sotto il braccio il fardello di poc’anzi. Eravamo già quasi arrivati alla fucina quando Jim gli pose là domanda che da un pezzo mi stava frullando per la mente.
«Che cosa ha condotto te a Cliffe Royal, zio?»
«Ecco, quando un uomo avanza negli anni», rispose il Campione, «ti cascano sul groppone tanti doveri di cui i ragazzini come voi non hanno neppure la più pallida idea. Quando sarete vecchi come me forse capirete la verità di quel che vi dico adesso».
E non ci fu verso di cavargli altro di bocca; ma per quanto giovane avevo già inteso parlare di contrabbando costiero e di merci trasportate nottetempo in luoghi solitari, cosicché da quel momento in poi tutte le volte che sentivo dire che i gendarmi avevano catturato qualcuno, non stavo tranquillo finché non vedevo sorridermi dalla porta della fucina l’allegra faccia di Harrison il Campione.
III.