Capitolo 1: "Il Primo Dipinto"

1575 Words
L'alba si stendeva sulla città come una ferita aperta, tingendo di rosso sangue i palazzi e le strade ancora bagnate dalla pioggia notturna. Il detective Claudio Moretti parcheggiò la sua Alfa Romeo davanti al palazzo liberty in via Margherita, spegnendo il motore con un gesto stanco. Aveva dormito appena tre ore, ma la chiamata alle cinque del mattino lo aveva strappato dal letto con la violenza di una sirena. "Altro omicidio impossibile," aveva detto il suo collega Santoro al telefono, la voce carica di frustrazione. "Stessa modalità, stessa assurdità. Devi vederlo per crederci." Claudio salì le scale di marmo fino al terzo piano, dove l'appartamento della vittima era già sigillato dal nastro giallo della scientifica. L'odore acre dei prodotti chimici usati per i rilievi si mescolava al profumo persistente di lavanda che doveva appartenere alla donna morta. Elena Rossini, quarantadue anni, insegnante di liceo. Nessun nemico conosciuto, nessun movente apparente. Trovata morta nel suo salotto, seduta sulla poltrona di velluto blu con una tazza di tè ancora fumante tra le mani. Nessun segno di violenza, nessuna traccia di effrazione. "È come se fosse morta di spavento," disse il medico legale, alzando lo sguardo verso Claudio. "Il cuore si è fermato di colpo, ma non c'è nulla che possa spiegare perché." Claudio si avvicinò al corpo, osservando attentamente la scena. Elena aveva un'espressione di terrore assoluto stampata sul volto, gli occhi spalancati fissi verso un punto preciso del salotto. Seguì la direzione del suo sguardo e si accorse che fissava una parete vuota, dove si vedevano solo i segni più chiari lasciati da un quadro rimosso di recente. "Cosa c'era appeso lì?" chiese a Santoro. "Un dipinto. L'abbiamo fatto rimuovere per i rilievi, ma è strano..." Il collega si avvicinò, abbassando la voce. "La donna che abita al piano di sotto dice di aver sentito Elena urlare verso le due di notte. Quando sono arrivati i soccorsi, però, era già morta da ore. Il rigor mortis suggerisce che sia deceduta intorno alle undici." Claudio aggrottò la fronte. "Quindi ha urlato tre ore dopo essere morta?" "Appunto. È impossibile." Un brivido gelido corse lungo la schiena di Claudio. Era il terzo caso simile in sei mesi: persone morte apparentemente di paura, senza motivo, sempre nelle loro case, sempre con quella stessa espressione di terrore. E sempre con testimoni che giuravano di aver sentito urla impossibili. "Dov'è il dipinto ora?" "Nel furgone della scientifica. Ma Claudio..." Santoro esitò, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno li sentisse. "Ho chiesto chi fosse l'autore dell'opera. Si chiama Enrico Santini, un artista locale. Ho controllato i suoi precedenti e indovina un po'?" "Dimmi." "Aveva dipinto ritratti anche delle altre due vittime. Sempre qualche settimana prima della loro morte." Il silenzio che seguì fu interrotto solo dal ronzio delle luci al neon del corridoio. Claudio sentì il polso accelerare, l'istinto del poliziotto che si risvegliava dopo settimane di indagini inconcludenti. "Indirizzo?" "Via del Corso, 127. Ha uno studio al secondo piano." Un'ora dopo, Claudio si trovava davanti a un portone di legno scuro nel centro storico. L'edificio era antico, con la facciata di pietra annerita dal tempo e finestre ad arco che sembravano occhi socchiusi. Una targa di ottone recava la scritta "E. Santini - Atelier". Suonò il campanello e aspettò. Quando la porta si aprì, rimase per un momento senza fiato. L'uomo davanti a lui era più giovane di quanto si aspettasse, forse trentacinque anni, con capelli corvini che gli cadevano disordinati sulla fronte e occhi di un verde intenso che sembravano vedere attraverso le cose. Indossava un maglione di cashmere nero macchiato di colore e jeans aderenti che accentuavano la sua figura snella ma atletica. "Enrico Santini?" La voce di Claudio uscì leggermente più roca del solito. "Sì. Lei è della polizia, vero?" L'artista non sembrava sorpreso, anzi, c'era qualcosa di rassegnato nei suoi occhi. "Stavo aspettando la sua visita." "Davvero? E perché?" Enrico si scostò per farlo entrare, e Claudio notò che le sue mani tremavano leggermente. "Perché è morta, non è così? Elena Rossini." Le parole colpirono Claudio come un pugno. "Come fa a saperlo?" "Si accomodi, detective. Credo che lei abbia molte domande da farmi." Claudio seguì Enrico su per una scala di legno che scricchiolava ad ogni passo. L'odore di trementina e colori a olio diventava sempre più intenso man mano che salivano. Lo studio occupava l'intero secondo piano, con grandi finestre che lasciavano entrare la luce dorata del primo pomeriggio. Le pareti erano coperte di tele, alcune finite, altre appena abbozzate. Ritratti di persone che Claudio non riconosceva, paesaggi urbani notturni, nature morte che sembravano pulsare di vita propria. Ma quello che catturò la sua attenzione fu una tela coperta da un lenzuolo bianco, posizionata al centro della stanza. "È quello che pensa che sia," disse Enrico, seguendo il suo sguardo. La sua voce era appena un sussurro. "Me lo mostri." Enrico esitò, poi si avvicinò al cavalletto e tirò via il lenzuolo con un gesto brusco. Claudio trattenne il respiro. Il ritratto di Elena Rossini era perfetto in ogni dettaglio. Seduta sulla sua poltrona di velluto blu, la tazza di tè tra le mani, ma con quella stessa espressione di terrore assoluto che aveva visto quella mattina. Persino la luce che filtrava dalla finestra del salotto era identica, e sullo sfondo si vedeva la parete vuota dove mancava un quadro. "Quando l'ha dipinto?" La voce di Claudio era tesa come una corda di violino. "Tre settimane fa." Enrico si voltò verso di lui, e nei suoi occhi Claudio vide un dolore profondo, antico. "Non riesco a controllarli, i sogni. Arrivano di notte, sempre di notte, e io... io devo dipingere quello che vedo." "Lei sta confessando di averla uccisa?" "No!" La risposta di Enrico fu così veemente che Claudio fece un passo indietro. "Io non ho mai fatto del male a nessuno. Io vedo solo... quello che deve accadere." Claudio lo studiò attentamente. Enrico era agitato, ma non c'era malizia nei suoi occhi, solo una disperazione che sembrava logorargli l'anima. Era bello, dannatamente bello, con quei lineamenti aristocratici e quella bocca che invitava a essere baciata. Ma era anche il principale sospettato di tre omicidi impossibili. "Ha dipinto anche gli altri? Roberto Marchetti e Giulia Fani?" Enrico annuì, abbassando lo sguardo. "Sono laggiù, se vuole vederli." Attraversarono lo studio fino a raggiungere un angolo più in ombra, dove altre tele erano appoggiate contro la parete. Enrico ne girò due, rivelando altri due ritratti altrettanto perfetti. Roberto Marchetti nel suo ufficio, colto da un infarto mentre leggeva un documento. Giulia Fani nella sua camera da letto, il volto contratto in una smorfia di paura. "Maledizione," sussurrò Claudio. "Crede che io sia pazzo?" La voce di Enrico era fragile, vulnerabile. "Crede che io sia un mostro che uccide e poi dipinge le sue vittime per qualche gioco perverso?" Claudio si voltò verso di lui, e per un momento i loro sguardi si incrociarono. Nei verdi occhi dell'artista vide qualcosa che non si aspettava: la stessa solitudine che portava dentro da anni, la stessa sensazione di essere intrappolato in un destino più grande di lui. "Non lo so," rispose sinceramente. "Ma ho intenzione di scoprirlo." Enrico si avvicinò di un passo, e Claudio sentì il suo profumo, una miscela di sapone e pittura che gli fece girare la testa. "E se scoprisse che è tutto vero? Che io vedo davvero la morte prima che accada? Cosa farebbe?" "Il mio lavoro," rispose Claudio, ma la sua voce mancava di convinzione. "Anche se significasse condannare un innocente?" La domanda rimase sospesa nell'aria come una sfida. Claudio osservò di nuovo i dipinti, poi tornò a guardare l'uomo davanti a lui. Enrico era vicino, troppo vicino, e Claudio poteva vedere le sfumature dorate nei suoi occhi verdi, il modo in cui le sue labbra si socchiudevano leggermente quando respirava. "Dovrò portarla in questura per un interrogatorio formale," disse, cercando di mantenere un tono professionale. "Lo so." Enrico sorrise, ma era un sorriso triste. "Posso prendere una giacca?" Mentre Enrico andava a prendere la giacca, Claudio rimase solo con i dipinti. Li osservò uno ad uno, cercando di trovare una spiegazione razionale a quell'impossibile precisione. Ma più li guardava, più si convinceva che nessun uomo poteva inventare così tanti dettagli senza averli visti con i propri occhi. Il problema era che quei dettagli erano emersi solo dopo la morte delle vittime. "Pronto," disse Enrico, tornando con una giacca di pelle nera che gli donava un aspetto ancora più affascinante. Mentre scendevano le scale, Claudio non riusciva a smettere di pensare al modo in cui Enrico si muoveva, elegante e felino, o al suono della sua voce quando aveva pronunciato il suo nome. Era attratto da quell'uomo, dannatamente attratto, e questo rendeva tutto più complicato. "Detective," disse Enrico quando arrivarono alla macchina. "Posso chiederle una cosa?" "Prego." "Quando scoprirà la verità, e la scoprirà, mi prometta che non mi giudicherà per quello che sono, ma per quello che scelgo di fare." Claudio lo guardò, vedendo la vulnerabilità che si nascondeva dietro quell'apparente sicurezza. "Glielo prometto." Mentre si dirigevano verso la questura, Claudio non poteva sapere che quella promessa avrebbe cambiato tutto. Non poteva sapere che in pochi giorni si sarebbe trovato a scegliere tra il dovere e un sentimento che non aveva mai provato prima. Non poteva sapere che Enrico Santini sarebbe diventato la sua ossessione, la sua salvezza e la sua dannazione. Ma forse, nel profondo del suo cuore, lo stava già intuendo.
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