Capitolo 1: La Libreria Antica e l’Ombra della Pioggia

704 Words
La pioggia scendeva obliqua, una cortina grigia e incessante che frustava i vetri dell’antiquariato. Ogni goccia risuonava come un accordo spezzato di un pianoforte lontano, una sinfonia di cristallo sul punto di infrangersi. Le luci dei lampioni, rade e malaticce, filtravano attraverso le tende di velluto, accarezzando più che illuminare le pareti tappezzate di libri e segreti. L’aria era densa, intrisa dell’odore di carta antica, di legno verniciato, e di qualcosa di più profondo, di più vivo: il muschio umido della terra, il sudore freddo della pietra. Un profumo di tomba riaperta. Daniele era sospeso sulla scala a pioli, il corpo un’asta snella nell’ombra. Tra le sue dita, lunghe e nervose, il pugnale respirava. L’impugnatura d’argento era fredda come la pelle di un serpente, gli intarsi una mappa di desideri perversi. Piccoli rubini, occhi di sangue congelato, fissavano il nulla con una lucidità animalesca. La lama, sottile e crudele, sembrava pulsare al ritmo del suo cuore. Un oggetto di morte, di passione violenta, forse usato per trafiggere un cuore o per suggellare un patto d’amore folle. Daniele lo strinse più forte, sentendo un brivido di piacere elettrico risalirgli lungo l’avambraccio. Quel fremito gli parlava di possesso, di un legame che andava oltre la carne. Questo era il suo santuario, il suo grembo di ombre. Un tappeto persiano, logoro come la pelle di un antico amante, inghiottiva ogni suono. Quadri dagli sguardi equivoci, specchi che riflettevano fantasmi invece che volti, statuette tribali con occhi d’avorio che seguivano ogni suo movimento con la gelosia di amanti dimenticati. Lui era il custode, il sacerdote di questa cattedrale di memorie violate. E in quella penombra tremula, sospeso tra il respiro del passato e il battito del presente, Daniele si sentiva finalmente vero. Completato non dalle persone, ma dalle cose. Dal loro silenzio carico di storie. La pioggia era un muro, una protezione. Quando era lì, solo, le energie degli oggetti si fondevano con la sua, riempiendo il vuoto che portava dentro come una seconda pelle. Il pugnale, ora adagiato con devozione sulla mensola più alta, brillò di una luce propria, un bagliore liquido e invitante. Un’aura magnetica, pericolosa. Come il sorriso di un amante che sa di poter ferire. Scese dalla scala, e le sue dita scivolarono con familiarità intima sul velluto scamosciato di una poltrona, sugli intarsi di un grammofono che forse aveva suonato valzer per un assassinio, sul coperchio di madreperla di una scatola musicale. Ogni carezza era un ricordo condiviso, un segreto sussurrato. Il ticchettio dell’orologio a pendolo era il metronomo dei loro battiti cardiaci unisoni. Daniele non era mai solo. Era circondato da presenze che avevano amato con furore, ucciso per passione, vissuto con un’intensità che il mondo reale gli aveva sempre negato. Raggiunse il pesante banco in mogano e si abbandonò nella poltrona, lo sguardo catturato dalla fotografia sbiadita appesa al muro. Una donna in nero, gli occhi due abissi di disperazione muta. Forse una vedova. Forse un’assassina. Forse entrambe. Fu allora che lo sentì. Non un rumore. Un cambiamento di pressione nell’aria. Un respiro che non era il suo. Un fremito che attraversò la penombra e gli accarezzò la nuca, una promessa o una minaccia. L’inquietudine non si insinuò: esplose, calda e improvvisa, nel suo petto. La pelle gli si rizzò, non di paura, ma di attesa. Era la sensazione che provava quando un amante lo fissava da dietro, prima di toccarlo. Nell’ombra, Daniele chiuse gli occhi. Lasciò che il battito della pioggia e quello del suo cuore diventassero una cosa sola, un rullo tribale. Amava questo limbo, questa fragile immortalità. Essere sull’orlo, sempre pronto a lasciarsi prendere, a cadere dalla parte delle ombre, dove i desideri erano più veri e le passioni non conoscevano la morte. La porta, chiusa a doppia mandata, era l’ultimo, futile confine con un mondo che non lo voleva. Ma Daniele sapeva. Sapeva che ogni oggetto in quella stanza era una porta. Una chiave per essere toccato, posseduto, completato dall’essenza di chi li aveva amati fino alla follia. E quella notte, mentre la tempesta si scatenava fuori, Daniele aprì le braccia alle ombre. E decise di ascoltare non i sussurri, ma i sospiri appassionati dei suoi fantasmi. Pronto, finalmente, a lasciarsi amare dalla loro oscura, eterna carezza.
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