CAPITOLO 1 L'Ombra Sotto il Lampione

1280 Words
La pioggia di novembre batteva contro i vetri antichi della Biblioteca Angelica con la furia di mille dita impazienti. Stefano Rossi sollevò lo sguardo dal volume di poesie secentesche che sfogliava da ore, osservando le gocce che disegnavano sentieri serpentini sulla superficie appannata. Trecento anni di esistenza gli avevano insegnato molte cose: la pazienza di un monaco, la grazia di un aristocratico, l'arte di fingere di essere umano. Ma quella sera, mentre l'orologio a pendolo scandiva le ore notturne con il suo ticchettio monotono, un'inquietudine nuova gli serpeggiava nelle vene morte come veleno d'argento. Le sue dita, pallide come l'alabastro dei sarcofagi che aveva conosciuto nei secoli passati, accarezzavano le pagine ingiallite con la sacralità di chi conosce il peso del tempo. Ogni verso, ogni parola era un frammento di memoria umana che lui custodiva gelosamente, ultimo guardiano di un mondo che cambiava troppo in fretta anche per un immortale. La biblioteca era il suo santuario, l'unico luogo dove poteva essere sé stesso senza maschere: un fantasma che vegliava sulla conoscenza, un custode d'ombre tra scaffali polverosi e volumi dimenticati. Il silenzio della notte romana lo avvolgeva come un mantello familiare. Fuori, la città dormiva ignara della creatura che ogni sera si aggirava tra i suoi vicoli, che conosceva ogni pietra, ogni angolo buio, ogni segreto sussurrato dalle mura millenarie. Roma era la sua tomba e la sua culla, la città che lo aveva visto nascere come uomo e rinascere come qualcos'altro. Qui aveva imparato ad amare, a uccidere, a pentirsi. Qui aveva scelto di cambiare, di evolversi da mostro a qualcosa di diverso, di più sottile. Il ticchettio dell'orologio si fece più insistente. Mezzanotte e trentacinque. L'ora dei demoni, pensò con un sorriso amaro che non raggiunse gli occhi neri come pece. In verità, ogni ora era l'ora dei demoni per uno come lui. Ma almeno, ora, era un demonio educato. All'improvviso, il suono secco di passi risuonò sul selciato bagnato del vicolo sottostante, spezzando il silenzio come una lama che squarcia la seta. Stefano alzò la testa di scatto, ogni senso soprannaturale che si acuiva istantaneamente. Non erano i passi incerti di un ubriaco che rientrava a casa, né il tacco affrettato di una donna che temeva le ombre. Questi passi avevano un ritmo diverso, una cadenza che parlava di potenza trattenuta, di muscoli pronti a scattare, di pericolo che si muoveva con grazia felina nella notte. Si alzò dalla scrivania di mogano antico, abbandonando Marino e i suoi sonetti d'amore per avvicinarsi alla finestra. La sua ombra lunga e sottile si proiettò sul pavimento di marmo, fantasma di un fantasma. Attraverso il vetro appannato, intravide una figura incappucciata che avanzava nell'ombra del vicolo con l'andatura di chi conosce bene la notte e i suoi segreti. Un predatore, riconobbe Stefano con un brivido d'istinto che gli percorse la spina dorsale. Riconosceva i suoi simili, anche quando non erano della sua stessa specie. La figura si fermò sotto l'unico lampione del vicolo, quello che da decenni illuminava con la sua luce fioca l'ingresso laterale della biblioteca. Per un momento rimase immobile, come se stesse ascoltando qualcosa che solo lui poteva sentire. Poi, con un gesto lento e deliberato, abbassò il cappuccio della felpa. Il cuore di Stefano - quel cuore che batteva così debolmente da sembrare morto - si contrasse in un modo che aveva dimenticato da secoli. I capelli dell'uomo erano scuri, bagnati di pioggia, e incorniciavano un profilo che sembrava scolpito nel marmo di Carrara da un artista pazzo d'amore. Lineamenti taglienti che parlavano di sangue meridionale, una mascella forte che prometteva baci feroci e morsi appassionati, labbra piene che sembravano capaci di preghiere e bestemmie con uguale ferocia. Lorenzo. Il nome gli esplose nella mente come una rivelazione, come un ricordo ancestrale che risaliva dalle profondità dell'anima. Era impossibile - non lo aveva mai visto prima, ne era certo - eppure quel volto era quello dei suoi incubi più dolci, dei sogni proibiti che turbavano il suo sonno diurno da settimane. Come se il destino stesso avesse modellato quelle fattezze per tormentarlo, per mostrargli ciò che non avrebbe mai potuto avere. L'uomo sotto il lampione sembrava stesse aspettando qualcosa. O qualcuno. I suoi movimenti erano quelli di un guerriero in pausa, ogni muscolo rilassato ma pronto a esplodere in azione. Indossava jeans scuri e una felpa nera che non riusciva a nascondere la potenza delle spalle, la solidità del petto. Giovane - trent'anni forse - ma gli occhi, quando finalmente li sollevò verso la finestra della biblioteca, erano quelli di un uomo che aveva guardato troppe volte negli abissi dell'animo umano. Occhi grigi come l'acciaio di Toledo, tempestosi come il mare d'inverno. E in quegli occhi, quando si incontrarono con quelli di Stefano attraverso il vetro, balenò qualcosa di primitivo e pericoloso. Il riconoscimento del cacciatore che ha individuato la preda. Stefano sentì ogni fibra del suo essere irrigidirsi. Avrebbe dovuto ritirarsi nell'ombra, sparire come sapeva fare così bene. Invece rimase lì, inchiodato da quello sguardo che sembrava vedere attraverso il vetro, attraverso le mura, attraverso i secoli di maschere che si era costruito addosso. Un momento che durò un'eternità, due predatori che si studiavano attraverso la notte e la pioggia. Poi l'uomo sorrise. E quel sorriso - freddo, tagliente, privo di ogni calore - fu quello di un cacciatore che ha finalmente trovato ciò che stava cercando. Non c'era sorpresa in quel ghigno, solo la soddisfazione di chi ha confermato un sospetto. Come se sapesse esattamente chi era Stefano, cosa era, e fosse venuto fin lì proprio per lui. Un brivido gelido percorse la spina dorsale di Stefano. Non paura - quella l'aveva dimenticata da tempo - ma eccitazione. L'eccitazione della sfida, del pericolo, di qualcosa che poteva finalmente spezzare la monotonia dei suoi secoli. Quell'uomo rappresentava una minaccia, questo era certo. Ma anche qualcos'altro. Qualcosa che il vampiro non osava ancora nominare. L'uomo si rimise il cappuccio e si allontanò nel vicolo, inghiottito dall'ombra come se non fosse mai esistito. Ma il suo profumo rimase nell'aria - anche a quella distanza, attraverso il vetro, Stefano riusciva a percepirlo. Sangue caldo, adrenalina, acciaio e determinazione. E qualcos'altro, qualcosa di familiare che gli fece stringere i pugni fino a farsi male con le unghie. Argento. L'uomo profumava di argento. Stefano rimase alla finestra per lungo tempo, anche dopo che il vicolo fu tornato deserto. La pioggia continuava a battere sui vetri, ma ora il suono gli sembrava diverso. Non più monotono, ma carico di promesse. Di minacce. Di possibilità che non aveva considerato da decenni. Tornò alla scrivania, ma le parole di Marino gli sembravano improvvisamente vuote, prive di significato. Come potevano i versi d'amore di un poeta morto competere con la realtà di quello sguardo grigio, di quel sorriso che prometteva tempeste? L'orologio suonò l'una. Poi le due. Stefano continuò a fingere di leggere, ma ogni sua fibra era tesa verso la finestra, in attesa. Sapeva, con la certezza che solo tre secoli di esistenza possono dare, che quell'uomo sarebbe tornato. La caccia era iniziata, e per la prima volta da tanto tempo, Stefano non era sicuro di chi fosse il predatore e chi la preda. Quando finalmente il cielo iniziò a schiarire con le prime luci dell'alba, si alzò e si diresse verso il suo rifugio nel piano interrato. Ma prima di scendere le scale, gettò un ultimo sguardo verso la finestra. Il lampione era ancora acceso nel vicolo vuoto, testimone muto di un incontro che aveva cambiato tutto. Stefano sorrise, e per la prima volta in decenni, le sue zanne brillarono nella penombra con qualcosa che assomigliava alla felicità. La caccia era iniziata. E lui non vedeva l'ora di scoprire come sarebbe finita.
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