Capitolo Dieci

1543 Parole
George si avviò svelto lungo il vicolo, allontanandosi dalla spiaggia, allontanandosi da Ragnar, impaziente di raggiungere la sicurezza della propria casa. La semioscurità rendeva i suoi passi incerti, sconnessi, incespicò un paio di volte e allargò le braccia per tenersi in equilibrio, graffiandosi le mani contro i rubidi muri. Appesantiti dal fango che si stava seccando. l'orlo dei pantaloni gli aderiva alle caviglie, ostacolando la sua andatura. Un fiotto di lacrime gli sali agli occhi. Avrebbe dovuto lavorare nella saline soltanto un altro paio di giorni per guadagnare il denaro che avrebbe consentito loro di attraversare il fiume e lasciare quella città. Perché, oh, perché aveva acconsentito a inoltrarsi nella palude insieme a quei bambini? Un'ondata di conforto lo sommerse, mozzandogli il fiato. Non aveva avuto una possibilità di scelta. Il padrone gli aveva ordinato di recarsi laggiù. Se gli avesse disobbedito, non avrebbe più avuto un lavoro. Tuttavia, a causa di ciò che era accaduto, sarebbero dovuti andarsene il più presto possibile. Quella notte, al massimo. Un paio di sfavillanti occhi verdi apparvero nel suo campo visivo. Il danese. A causa sua, sarebbero stati costretti a partire. Lui non avrebbe tardato molto a rivelare ad altri i sospetti che nutriva sul suo conto. Girò la testa di scatto per accertarsi che nessuno lo stesse seguendo, e l'inquietudine lo indusse ad affrettare il passo. Il fetore del letamaio della città gli colpì le narici mentre si avvicinava al minuscolo cottage che fungeva da loro alloggio. Arricciando il naso, spinse la porta di legno e varcò la soglia, avanzando sul pavimento di terra battuta. Un denso fumo invadeva la stanza. Tossendo, agitò la mano per tentare di dissiparlo, in modo da riuscire a vedere. Un fuoco ardeva debolmente, il fumo che si innalzava verso il foro praticato fra le travi. Seduto su uno sgabello, Malcolm, il fratello maggiore, lo stava attizzando con un bastoncino, tentando invano di far divampare le fiamme dalle legna bagnata. I suoi capelli biondi, lunghi fino alla vita, scintillavano nella penombra. Fissò George con aria mesta, il volto inondato di lacrime. "Dov'è?" domandò George, in preda alla trepidazione. Una rapida occhiata intorno alla stanza gli aveva rivelato che il loro padre non si trovava lì. "Dov'è andato, Malcolm? Dimmelo!" Il terrore gli incrinava la voce. "Oh, George, voleva dare qualcosa! Qualcosa per aiutarti. Detestava il fatto che tu fossi costretto a lavorare duramente mentre noi stavamo con le mani in mano per tutto il giorno." "Ma non può lavorare. La gamba" "Si sentiva così inutile. Riesci certo a capirlo, fratello, come lo capisco io. E tutto questo a causa mia. Mi sento talmente in colpa, avrei dovuto avrei dovuto sposare" Gli occhi di Malcolm, di uno stupefacente color turchese, si riempirono di lacrime mentre lasciava la frase in sospeso. "No! Non dirlo!" ribatté George in tono collerico. "Non dirlo mai più! Abbiamo fatto la cosa giusta, anche se nostro fratello è stato presto in ostaggio." Accovacciandosi, prese nelle proprie mani le mani del fratello. "Tu non hai nessuna colpa, capisci? Quell'alfa quell'alfa è un mostro, il modo in cui ti trattava" Sporgendosi, Malcolm toccò la spilla d'argento appuntata sul lungo lembo di lino che gli avvolgeva il collo. "E il modo in cui ha tratta te, fratello mi dispiace moltissimo per questo" "è stato un piccolo prezzo da pagare." George abbassò le ciglia al ricordo di quel terribile giorno, del guizzo della spada, della lama che gli affondava nel collo, del sangue. Tuttavia, era rimasto aggrappato al fratello, trattenendolo come se ne andasse della sua vita, allontanandolo da quell'alfa spaventoso e portandolo in salvo. Malcolm ritirò la mano. "Non piccolo." precisò in tono mesto. "La cicatrice ti duole ancora?" Lasciando cadere il bastoncino, si abbracciò le ginocchia e si dondolò sullo sgabello come un bambino. Benché avesse tre anni più di George, la sua delicata bellezza e la sua fragilità lo faceva apparire più giovane. Per quanto loro si sforzassero di nasconderlo, il suo aspetto etereo richiamava l'attenzione ovunque andasse, rendendolo vulnerabile. Era per quello, oltre che per il fatto che era fisicamente più forte, che era stato George a cercare un lavoro in città. Il suo viso insignificante, la sua corporatura minuta anche se muscolosa, attirava pochi sguardi, cose per cui ringraziava il cielo da quando viveva fra quei sassoni, dal momento che gli aveva sempre consentito di passare inosservato. Fino a quel giorno, almeno. Un brivido gli serpeggiò lungo le membra mentre una voce maschile si insinuava nei suoi pensieri, parlando in francese: Forse perché siete normanno? Accantonando quell'indesiderato ricordo, George si stampò un brillante sorriso sulle labbra. "No, non mi duole." negò in tono sbrigativo. Non desiderava parlare della ferita che gli era stata inferta, né di riandare con la mente ai particolari di quel giorno, ai rimpianti, alle recriminazioni. Non desiderava angustiare Malcolm più di quanto fosse necessario. In quel momento l'unica cosa che voleva fare era rintracciare suo padre. A un tratto Malcolm, che lo stava osservando, notò i suoi indumenti incrostati di fango, il suo viso pallido e smunto. "George, ti è successo qualcosa, quest'oggi? Sei tornato più tardi degli altri giorni." "No, niente." mentì lui. "Siamo stati costretti a lavorare più a lungo, nelle paludi." Alzandosi, fletté le spalle per mitigare il dolore alla nuca. Pur essendo abituato alla fatica fisica, le giornate che trascorreva alle pentole di sale erano lunghe e dure, e i secchi pieni di acqua salmastra pesanti da trasportare. Inoltre gli doleva il braccio, per la contusione che gli avevano procurato le dita del danese conficcate nella sua carne. Si morse il labbro inferiore, risentito, furioso con lui per il modo in cui, anche se involontariamente, era riuscito a mandare a monte i loro progetti. Sospirò. "Dimmi dov'è nostro padre." "è andato alla locanda." rispose il fratello. "Quella nella piazza del mercato." Il cuore gli balzò in gola. "Perché, Malcolm? Che cosa spera di ottenere, in quel posto?" Malcolm si limitò a chinare la testa, l'espressione affranta. George incrociò le braccia al petto, le labbra serrate in una linea dura. "Sta di nuovo giocando d'azzardo, non è vero?" Precipitandosi nell'angolo della stanza, aprì una delle tre borse da viaggio accatastate contro il muro ed estrasse gli oggetti personali posti in cima, gettandoli sul pavimento. Due sacchetti di panno pieni di monete d'oro erano annidati sul fondo della borsa di suo padre. Ne mancava uno. "Ha preso un terzo del denaro del riscatto, Malcolm!" proruppe. "Un terzo! Perché non glielo hai impedito?" Sconvolto, tornò a voltarsi verso il fratello. "Sai bene quanto abbiamo impiegato a mettere insieme quella somma!" "Ho tentato, George. Mi dispiace moltissimo. Ma è stato irremovibile, sai com'è fatto." Raddrizzandosi, lui si batté il pugno sulla testa. "In nome del cielo, Malcolm! Che cos'ha intenzione di fare? La città brulica di danesi che sono appena sbarcati. Gliela porteranno via in un istante." "è abile, con i dadi." Si percepiva il dubbio nella voce di Malcolm. "Sa come vincere." "Forse contro gli ottusi abitanti di questa città." osservò George in tono aspro. "Ma contro i danesi? Eravamo così vicini, avevamo quasi l'intera somma. Avevamo quasi liberato nostro fratello. Perché adesso ha deciso di correre un simile rischio?" "Voleva aiutarti, George. Era convinto di agire per il meglio." George estrasse un pezzo di rozza lana rossa dalla sua borsa di viaggio e se lo avvolse attorno alle spalle come uno scialle. "Devo andare a cercarlo." Alzandosi dallo sgabello, Malcolm assentì. Avanzando di un passo, gli prese le mani tra le sue. "Sono davvero desolato per non essere riuscito a impedirglielo." George gli strinse per un attimo le mani in un gesto destinato a rassicurarlo. "Non possiamo lasciare che perda quel denaro. Devo trovarlo, e in fretta." Collera e frustrazione dovute al comportamento del padre fecero defluire da lui ogni traccia di stanchezza. Uscendo nel vicolo, George tenne sollevati i pantaloni infangati al di sopra della caviglie, il passo rapido mentre attraversava il dedalo di strade anguste. Nell'apertura fra i tetti di stoppie, il cielo si era oscurato, un manto di velluto blu trapuntato di stelle. Il freddo chiarore della luna inargentava la strada mentre lui si affrettava a proseguire, l'incessante brusio di voci maschili che lo guidava verso la piazza principale della città. Qualcosa gli sfiorò l'orecchio. Il copricapo si era allentato, scivolandogli giù dia capelli. Al riparo dell'ombra di una soglia, slacciò la spilla e si affrettò a sistemare il lembo di tessuto. Mentre annaspava con la spilla, sentì avvicinarsi delle voci maschili, forti e concitate, dirette verso di lui. Il panico l'attanaglio. La spilla gli scivolò dalle dita tremanti e cadde sul lastrico, scintillando nel chiaro di luna. Mentre si chinava per prenderla, una mano carnosa la raccolse prima che lui avesse avuto il tempo di piegarvi intorno le dita. "Restituitemela!" ordinò George, raddrizzandosi. Un sassone dalla faccia paonazza lo fissò con attenzione. "Che cosa abbiamo qui, eh, ragazzi?" Sorrise ai compagni che lo circondavano, barcollando in vari stadi di ubriachezza. Prima che lui potesse impedirglielo, l'uomo gli strappò il copricapo dai capelli e gli chiuse la mano intorno al mento, costringendolo ad alzare la testa per poterlo vedere in faccia. "Una bel omega, a mio avviso, senza dubbia. Cosa stai facendo fuori da solo, ragazzo? Stai andando in cerca di clienti in questa affollata città?"
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