I giorni successivi scivolarono via in una routine strana e ipnotica. Marco si svegliava ogni mattina con la sensazione di aver sentito qualcuno chiamare il suo nome durante la notte, ma quando tendeva l'orecchio nel silenzio dell'alba, trovava solo il canto degli uccelli e il fruscio del vento tra le foglie degli alberi secolari che circondavano la villa.
Durante il giorno si dedicava al riordino della casa, scoprendo tesori nascosti negli armadi e nei cassetti. Trovò lettere d'amore scritte con una calligrafia elegante, fotografie ingiallite dal tempo, e un diario rilegato in pelle che apparteneva proprio ad Alessandro Monteverde. Le pagine erano fitte di una scrittura appassionata che parlava di amori tormentati, di notti insonni, di desideri che bruciavano come fuoco nell'anima.
"Il mio cuore è una prigione," aveva scritto Alessandro, "e io stesso ne sono il carceriere. Amo ciò che non posso avere, desidero ciò che mi è proibito. In questa casa antica, tra questi muri che hanno visto nascere e morire tante passioni, io consumo la mia giovinezza in un'attesa che forse non avrà mai fine."
Marco leggeva quelle parole con il cuore che batteva forte, sentendo un'inspiegabile connessione con quell'anima tormentata di due secoli fa. Era come se le emozioni di Alessandro riverberassero attraverso il tempo, toccando qualcosa di profondo dentro di lui.
Ma era quando calava la sera che la casa si trasformava davvero. I rumori diventavano più distinti, più precisi. Non più semplici scricchiolii del legno che si assesta, ma veri e propri passi che riecheggiavano nei corridoi del piano superiore. Marco aveva inizialmente pensato a topi o ad altri animali, ma ben presto si rese conto che quei suoni seguivano un ritmo troppo umano, troppo deliberato.
La terza notte, mentre leggeva nella poltrona davanti al camino, sentì distintamente il suono di una porta che si apriva e si chiudeva al piano di sopra. Il cuore iniziò a battergli forte nel petto mentre alzava lo sguardo verso il soffitto, seguendo con gli occhi il percorso dei passi che si muovevano lentamente lungo il corridoio.
"Chi c'è?" chiamò, la voce che gli tremava leggermente. I passi si fermarono di colpo, come se chi camminava avesse sentito la sua voce e si fosse fermato ad ascoltare. Il silenzio che seguì fu così denso che Marco riusciva a sentire il battito del proprio cuore.
Poi, dal piano di sopra, arrivò una voce. Bassa, melodiosa, carica di una tristezza infinita: "Marco..."
Il libro gli scivolò dalle mani, cadendo sul tappeto con un tonfo sordo. Quella voce aveva pronunciato il suo nome con una familiarità che lo fece rabbrividire. Non era la prima volta che lo sentiva, ma ora era chiara, inconfondibile. Qualcuno, o qualcosa, sapeva chi era.
Si alzò dalla poltrona con le gambe che gli tremavano, e lentamente si diresse verso le scale. Ogni gradino sembrava echeggiare nella casa silenziosa come un tuono. Arrivato al piano superiore, si fermò nel corridoio buio, il respiro che gli si mozzava in gola.
"Chi sei?" sussurrò nell'oscurità.
Per un momento non accadde nulla, poi una delle porte in fondo al corridoio si aprì lentamente, cigolando sui cardini. Dalla stanza filtrava una luce soffusa, dorata, che non aveva nulla a che fare con la luce elettrica. Marco si avvicinò con il cuore in gola, spinto da una curiosità più forte della paura.
La stanza era vuota, ma l'aria era satura di quel profumo dolce e malinconico che aveva sentito il primo giorno. Sulle pareti erano appesi altri ritratti, tutti dello stesso giovane uomo che aveva visto nel salone: Alessandro in diverse pose, in diversi momenti della sua breve vita. In uno di questi lo ritraeva mentre scriveva, la penna tra le dita eleganti e lo sguardo pensieroso rivolto verso una finestra.
"Alessandro?" chiamò Marco, sentendosi quasi sciocco nel rivolgersi a un fantasma.
L'aria della stanza sembrò vibrare, come se il nome avesse risvegliato qualcosa di dormiente. Le tende della finestra si mossero dolcemente, nonostante non ci fosse vento, e Marco sentì una presenza alle sue spalle. Si voltò lentamente, il cuore che gli martellava nel petto.
Non vide nulla, ma sentì distintamente un respiro caldo sulla nuca, e poi quella voce, così vicina che sembrava sussurrargli direttamente nell'orecchio: "Finalmente sei arrivato."
Marco si girò di scatto, ma la stanza era vuota. Solo i ritratti lo guardavano dalle pareti, quegli occhi scuri che sembravano seguire ogni suo movimento. La luce dorata si era affievolita, e ora la stanza era immersa nella penombra.
Scese le scale di corsa, il respiro affannoso e il cuore che gli batteva all'impazzata. Nel salone, si versò un bicchiere di whisky con le mani che gli tremavano, cercando di calmare i nervi. Il ritratto sopra il camino lo guardava con quello stesso sorriso enigmatico, ma ora Marco avrebbe giurato che ci fosse qualcosa di diverso nell'espressione, qualcosa di più vivo, più presente.
Le notti seguenti furono un crescendo di manifestazioni sempre più intense. Alessandro non si limitava più a camminare nei corridoi: spostava oggetti, accendeva e spegneva le luci, faceva risuonare la sua voce attraverso le stanze. La sua presenza si faceva sempre più tangibile, sempre più reale.
Una sera, mentre Marco cenava da solo nella grande sala da pranzo, sentì il suono di una sedia che veniva spostata. Alzò lo sguardo e vide che la sedia di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo, si era mossa leggermente, come se qualcuno si fosse seduto.
"Sei qui con me," disse Marco, non più una domanda ma una constatazione.
L'aria si fece più densa, carica di un'energia che faceva drizzare i capelli sulle braccia. Sul tavolo, il bicchiere di vino che aveva versato per sé si alzò lentamente, come sostenuto da mani invisibili, e si spostò verso la sedia vuota.
"Alessandro," sussurrò Marco, e questa volta il nome suonò come una carezza.
Il bicchiere si posò delicatamente sul tavolo, e Marco sentì quella voce, ora più chiara che mai: "Hai una voce bellissima quando pronunci il mio nome."
I brividi gli percorsero la schiena, ma non erano più brividi di paura. Era qualcosa di diverso, qualcosa che assomigliava pericolosamente al desiderio. L'aria della stanza sembrava vibrare di una tensione che non aveva nulla di soprannaturale e tutto di profondamente umano.
"Perché sei qui?" chiese Marco, la voce roca per l'emozione.
"Ero in attesa," arrivò la risposta, carica di una tristezza infinita. "Ho aspettato così tanto tempo. E ora che sei qui, posso finalmente sentirmi completo."
Marco chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere da quella voce che gli accarezzava l'anima. Quando li riaprì, per un istante, solo per un istante, gli sembrò di vedere l'ombra di una figura seduta di fronte a lui: i capelli scuri, il profilo elegante, le mani affusolate appoggiate sul tavolo.
"Ti vedo," sussurrò Marco, e l'ombra sorrise prima di dissolversi nell'aria come fumo.
Quella notte, quando salì nella sua camera, Marco trovò un regalo sul comodino: una rosa rossa, fresca come se fosse stata colta in quel momento, nonostante fosse pieno inverno. Accanto alla rosa, scritto con una calligrafia elegante su un foglio di carta antica: "Per te, che hai saputo vedere oltre la morte."
Marco prese la rosa tra le dita, respirandone il profumo intenso. I petali erano vellutati, reali, caldi come se fossero stati toccati da mani vive. Si addormentò con la rosa sul petto, e quella notte sognò occhi scuri che lo guardavano con un'intensità che gli mozzava il respiro e labbra che sussurravano il suo nome nell'oscurità.